Signor Presidente Formigoni, Signor Presidente della Provincia di Monza e Brianza, signor Sindaco, caro Presidente Valli, caro Presidente Barcella, gentili relatori, On. Alfano, On Bersani, Prof. Paleari, Dott. De Bortoli, Dott, Delai, autorità, cari colleghi, getili ospiti, Vi ringrazio per essere intervenuti e Vi rivolgo un cordiale saluto di benvenuto.
Celebriamo questa assemblea pubblica in un momento particolarmente complesso per il nostro Paese, per l’Europa e più in generale per le economie occidentali. Dopo la drammatica crisi iniziata nel 2008, i primi segnali positivi del 2010 e della prima metà di quest’anno seguiti dai deludenti dati del terzo trimestre, le prospettive di crescita italiane e quelle dei nostri partner europei per il 2012 e per il 2013 sono poco incoraggianti e per di più vengono di mese in mese riviste al ribasso. La nuova ondata di crisi finanziaria, iniziata durante l’estate scorsa, si sta velocemente spostando sull’economia reale e il credit crunch rappresenta la più forte preoccupazione per il mondo imprenditoriale nel breve periodo. I flussi finanziari stanno rapidamente reindirizzandosi verso i mercati ritenuti a minor rischio. A farne le spese sono progressivamente i Paesi più deboli, quelli con deficit di credibilità, misurabile in estrema sintesi nella relazione tra la dimensione del debito pubblico e le prospettive di crescita del PIL. L’avanzo/disavanzo di bilancio rappresenta invece un dato importante ma non determinante per i mercati. Da pochi mesi sul banco degli imputati c’è l’Italia, settima economia mondiale, terza in Europa, seconda industria manifatturiera europea. Imputare il difetto di credibiltà di cui gode una nazione a dei capri espiatori, oppura unicamente a una classe politica, è pura miopia. Tende a sviare le reali responsabilità di ciascuno di noi, è il pretesto per autoassolverci, per giustificare in fondo il sistema di regole ed usi che ognuno di noi si è dato e che purtroppo molto spesso non coincide con quello di cui si è dotato il Paese nel suo complesso sistema normativo, che andrebbe sì roformato, ma non eluso.
Il percorso che porta ad un giudizio positivo o negativo sulla credibilità di un Paese non è viziato da ideologia, da personalismi o da protagonismi, ma è determinato da una valutazione (fredda) sulla qualità complessiva di un sistema Paese che in estrema sintesi si esplicita nella capacità o meno di creare sviluppo sostenibile nel tempo. Nel 1961, in Italia, il reddito per abitante era paragonabile a quello dell’Africa sub-sahariana e la vita media era di 30 anni. Nello spazio di poco più di un secolo siamo divenuti uno dei principali attori del panorama mondiale. Tra il 1950 e il 1973 il reddito per abitante, che rigistra un aumento medio del 5,3% l’anno, è passato dal 38 al 64% di quello statunitense. La crescita è rallentata negli anni Settanta e Ottanta, rimanendo comunque più elevata rispetto a quella dei Paesi avanzati. Tra il 1970 e il 1990 però la spesa statle è arrivata al 53% del PIL e il “welfare” all’italiana ha allargato il suo perimetro distribuendo risorse ai cittadini ed alle imprese senza purtroppo creare nè vera solidarietà nè vero sviluppo. Nel 1990 il Pil per abitante raggiunge il 76% di quello statunitense. La lunga rincors dell’Italia ha evidenziato in seguito le prima debolezze. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, la crescita in Italia, pur rallentata all’1,7% annuo è stata dello 0,5%, poi la crisi ha fatto sì che il reddito medio degli italiani nel 2010 tornasse al livello del 1999!
Il reddito di un soggetto fisico è particolarmente importante perchè è strettamente correlato con il suo livello di rischio, misura la capacità della persona di superare le situazioni di difficoltà o di cogliere le opportunità e ne determina concretamente le capacità di resistere o di investire. Rivoluzione tecnica, rapida apertura ai mercati internazionali e avvento dell’Unione monetaria, non siamo riusciti a realizzare quella riconversione, sociale e culturale necessaria per trasformare questi shock in opportunità di crescita. Il nostro modello si è sviluppato prevalentemente sull’individua, sulle filiere familiari, su micro-comunità, capaci di interpretare spesso interessi localistici e corporativi. Un modello dinamico, dotato di straordinaria flessibilità grazie alla creatività e allo spirito di abnegazione dei nostri imprenditori e dei lavoratori, che ha generato tantissima ricchezza e benessere.Questo modello doveva essere però profondamente rivisto per rispondere alle nuove sfide, che non sono state raccolte, non tenendo adeguatamente conto che non eravamo gli unici a concorrere.
Per passera però da un modello individualistico a un sistema competitivo economicamente e socialmente, “dall’economia delle conoscenze” all'”economia della conoscenza”, occorre un’adeguata classe dirigente, nominata da una collettività realmente convinta che il bene comune sia un valore fondamentale in grado di superare una semplice sommatoria di interessi privati. Significa passare da un sistema dove prevalgono le oligarchie consociative che basano le nomine sulle cooptazione a sistema meritocratico che consente realmente ai migliori di emergere. E nessuno può sottrarsi alla responsabilità verso questa grave mancanza: le associazioni rappresentative delle imprese e dei lavoratori, il sistema finanziario, il mondo dell’istruzione, le istituzioni culturali, le Fondazioni bancarie, gli artisti e gli sportivi, il sistema cooperativo, le Camere di Commercio, gli ordini professionali, il volontariato, l’informazione, la magistratura ed infine la poloitica, che ha fallito proprio come fattore di raccordo di questa responsabilità comune condivisa. Questi gruppi di potere sono chiamati a rappresentare i legittimi interessi del lor settore ma nache un generale interesse e quindi teoricamente devono essere capaci di sacrificare alcuni ‘interessi legittimi’-
Siamo diventati il Paese dei paradossi:
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una ricchezza media familiare tra le più alte del mondo (superiore a USA, Giappone e Germania) ma il 50% dei contribuenti dichiara oggi redditi inferiori a 15.000 euro all’anno e il 90% meno di 35.000 euro;
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una classe imprenditoriale rappresentata da grandi realtà industriali, di cui una parte agisce a regime di quasi monopolio, in un sistema che vede 4,4 milioni di imprese, di cui, nel 2010 (dati ISTAT) 4,1 milioni con meno di 10 dipendenti e solamente 3.508 con più di 250 dipendenti! Avere un terreno fertile che possa favorire la crescita della dimensione delle aziende è fondamentale. Imprese più grandi significa maggiore produttività, maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, più internazionalizzazione, maggior occupazione femminile e giovanile
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un sindacato in cui la componente dei pensionati rappresenta quasi il 50% degli iscritti e dove sono sostanzialmente assenti i giovani.
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un mondo delle professioni che è proliferato più per permettere ai cittadini e alle imprese di rispondere ad una burocrazia ipertrofica che per accompagnare gli attori economici in un percorso qualitativo;
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un sistema finanziario con gravi responsabilità per la situazione in cui ci troviamo, che si distingue troppo spesso per le lezioni di morale e di etica che ci vengono rivolte, anche se è stato definito dall’Antitrust come poco concorrenziale, per il basso numero di operatori presenti e per la loro stretta interconnessione dovuta al perverso incrocio delle partecipazioni azionarie e dei componenti dei consigli di amministrazione. Sarebbe inoltre necessario rivedere nel nostro Paese il ruolo delle fondazioni bancarie da un lato e del sistema cooperativo del credito dall’altro;
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un sistema scolastico che ha fallito come ascensore sociale in un Paese con uno dei tassi più bassi di scolarizzazione nell’Europa Occidentale;
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un ceto intellettuale che non riesce ad andare oltre le diagnosi impietose o le semplici prediche edificanti, incapace di favorire la fusione di energia positiva con quella realizzativa;
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un mercato del lavoro profondamente inefficiente formato da lavoratori di serie A, di serie C e di fantasmi, in cui ogni ipotesi di riforma viene rifiutata perchè la ridefinizione dei diritti e degli obblighi dei lavoratori viene stigmatizzata come tentativo di “macelleria sociale”. Un sistema caratterizzato dalla mancanza di reali politiche attive per l’occupazione e dalla presenza di ammortizzatori sociali come la cassa integrazione guadagni troppo spesso utilizzata in un lento percorso di accompagnamento al pensionamento del lavoratore, disattendendone la funzione originaria;
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un sitema fiscale opprimente che colpisce in modo iniquo i lavoratori e le imprese rispetto a chi vive di rendita o agisce nel sommerso. Un paese doce l’evasione fiscale è stimata in oltre 120 miliardi di euro all’anno, un cancro inaccettabile da a ffrontare come priorità nazionale perchè rappresenta uno dei peggiori fattori distorsivi del mercato;
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un mondo dell’informazione dove prevale la volontà di cavalcare le indignazioni delle componenti del sistema di volta in volta colpite da ipotesi di riforma, cercando di delegittimizzare i proponenti senza approfondire con professionalità e oggettività le diverse proposte messe sul tavolo. Troppo volte abbiamo assistito sui giornali e nelle televisioni indagine giornalistiche che avevano l’obiettivo di suscitare una condanna spostando pericolosamente il piano da quello giuridico a quello morale, cercando poi di estendere le responsabilità alla classe di appartenenza del soggetto “colpevole”.
Agire sulla competitività di un Paese significa provare a transitare da una logica di welfare assistenziale ad una di welfare moderno e dinamico….. La strategia dei piccoli passi risponde alle regole della politica e del consenso sociale, ma non alle regole di un mondo globalizzato in cui la competitività tra i Paesi richiede soluzioni più radicale e con tempistiche diverse, soprattutto per chi, come noi, ha un grave ritardo da recuperare. Alcuni autorevoli personaggi hanno cercato di individuare nel liberalismo e nel mercato le colpe dell’attuale crisi. Si tratta di una visione ideologicamente sbagliata. Il mercato è semplicemente uno strumento. Quando non opera correttamente è perchè sono sbagliate le regole che ne definiscono i confini o i modi di operare dei concorrenti. La sfida è di impegnarsi a farlo funzionare, realizzando in pieno uno dei valori fondanti di una democrazia moderna che è la sussidiarietà e non occuparne gli spazi interponendo lo Stato alla più efficace iniziativa dei cittadini. Soprattutto in uno Stato come il nostro dove il 50% del PIL è rappresentato dalla spesa pubblica questa interpretazione anti-liberare visti i risultati è fuori luogo.
L’ambizione dell’assemblea di oggi è di mettere al centro dell’attenzione pubblica questo tema centrale che deve essere affrontato anche a livello locale, partendo proprio dalla Brianza, che rappresenta ancora oggi uno straordinario laboratorio di professionalità e di imprenditorialità nel contesto europeo, capace di coniugare i temi economici con quelli della responsabilità sociale. La definizione di una classe dirigente non si esaurisce nell’indicazione di un nome nella cabina elettorale o nelle sedi elettive dei rappresentanti di un’associazione. Occorre infatti partecipare ai processi di formazione, di selezione e di ricambio dei proprio rappresentanti, fornendo continui suggerimenti e anche critiche su cosa occorre fare e come farlo. Le classi dirigenti non devono però essere lasciate sole al loro destino con deleghe in bianco per poi rifarsi vivi dopo aver constatato che le cose non sono andate come dovevano. Senza un continuo impegno di tutti si diventa responsabili del male comune e non si contribuisce ad un progetto di crescita che deve essere guidato da classi dirigenti preparate e continuamente agganciate alla realtà di cui sono emanazione.
Le sfide più urgenti che dobbiamo affrontare a livello di sistema-paese sono EQUITA’ e SVILUPPO. Per quanto rigurda il primo tema, agendo su una riforma fiscale che riequilibri il livello di imposizione tra redditi di lavoro e di impresa rispetto alle rendite e su una riforma delle pensioni che riequilibri la posizione di chi è da poco entrato nel mondo del lavoro rispetto a coloro che stanno per ritirarsi e preveda magari un contributo di solidarietà per chi è andato in pensione con pochi anni di contributi. In merito al secondo tema, è prioritario agire su una riforma della legislazione del lavoro, accompagnata dall’introduzione di efficaci strumenti di politica attiva, e su un’azione riformatrice, in tema di liberalizzazioni e di privatizzazioni, che vada concretamente un disimpegno dello Stato nell’economia. Affrontare questi due temi significa ridefinire il rapporto tra reddito e ricchezza, tra capitale e lavoro, tra Stato e cittadini, tra diritti e doveri. Bisogna ritrovare una cittadinanza attiva che con passione, con genrosità e con impegno partecipi nel processo di valorizzazione del nostro tessto sociale, che altrimenti non può sopravvivere in un sistema dove le lidership sono scollegate dalla base, dove gli individui sfiduciati oppure opportunisticamente guidati si occupano unicamente del loro piccolo giardino. Bisogna tenere in gran conto il bene comune. ….. La legittimazione di una rinnovata classe dirigente, che deve passare attraverso un adeguato processo di selezione, di formazione e di ricambio è una sfida per tutti noi. Lo dobbiamo alle nuove generazioni e lo dobbiamo a tutti gli eroi e tutti i martiri che durante il Risorgimento, la Resistenza, gli anni bui del terrorismo sono caduti per l’Unita d’Italia, fiduciosi che il loro sacrificio non andasse perduti nei libri di storia, che il loro gesto fosse raccolto da una classe dirigente responsabile capace di assicurare benessere e coesione sociale nelle genrazioni future. Il mondo delle imprese, con il suo straordinario patrimonio produttivo, tecnologico e umano, che ancora oggi molti ci invidiano è pronto, ha già dato nel passato dimostrazione di saper affrontare le situazioni più dure, di adattarsi ai contesti che mutano. Siamo convinti di avere l’entusiasmo e le capacità per continuare ad essere uno dei principali attori dell’industria mondiale. Se la politica saprà realizzare i cambiamenti necessari per rendere finalmente il nostro sistema più competitivo e più attrattivo, troverà imprenditori che sfrutteranno con successo queste riforme e genereranno nuova ricchezza e nuovo benessere, dando concrete prospettive alle nuove generazioni e maggiori sicurezza a chi ha già contribuito a questo grande Paese.
Viva l’Italia e viva la Brianza.
grazie
Presidente Confindustria Monza Brianza
Dott. Renato Cerioli